Ci sono gesti che non fanno rumore, ma parlano più di tante parole. Preparare una persona per l’ultimo saluto è uno di questi. È un gesto che si compie nel silenzio, con
mani che tremano poco e cuore che trema tanto. È qui che entra in gioco la tanatoestetica: un lavoro che si fa con competenza, certo, ma soprattutto con
delicatezza, ascolto e rispetto.
Dietro ogni vestizione, dietro ogni preparazione, c’è molto più di un trattamento estetico. C’è la volontà di restituire dignità, di dare conforto, di permettere a chi resta di
conservare un’immagine serena, pulita, composta della persona amata. Perché l’ultimo sguardo è qualcosa che resta, che accompagna. E quando quel momento è vissuto
con dolcezza, può davvero fare la differenza.
Nel mio lavoro, ogni volta che entro nella stanza dove riposa una persona che non c’è più, mi fermo. Respiro. E ascolto. C’è sempre un silenzio che parla. Ogni volto mi
racconta qualcosa: le rughe di una madre, le mani segnate di un lavoratore, la pelle giovane di chi è andato troppo presto.
Quando inizio il trattamento tanatoestetico, non sto truccando un corpo. Sto accarezzando una storia. Ogni gesto è lento, preciso, rispettoso. Uso materiali specifici
per idratare la pelle, neutralizzare i segni della morte, ridare armonia ai lineamenti. Spesso mi chiedono: “Ma perché è importante farlo?”. La risposta è semplice: perché è
un modo per ridare umanità.
Una persona che appare in pace, serena, rassicura. Permette ai suoi cari di dirle addio
senza quel senso di shock, di spavento, di smarrimento. E in fondo, anche questo fa
parte dell’elaborazione del lutto: guardare chi si è amato e riconoscerlo, sentirlo ancora
vicino, anche solo per un attimo.
Vestire una salma, sistemarne i capelli, scegliere con la famiglia l’abito giusto. Sono dettagli, ma fanno parte di un rituale di cura. Preparare non è occultare la morte, ma
prendersi cura di essa con rispetto. È un modo per dire “sei ancora importante”, anche se non puoi più rispondere.
Non è raro che, nel momento in cui porto a termine la preparazione, i familiari si commuovano. “Sembra stia dormendo”, mi dicono. E non lo dicono per formalità. Lo
dicono perché in quel volto sereno ritrovano un pezzetto della persona che hanno amato. Ritrovano una connessione.
La tanatoestetica non cancella il dolore, ma può attenuarne l’impatto visivo, aiutare chi resta a entrare più dolcemente nel processo del commiato. Può rendere più umano un
momento che altrimenti sarebbe solo crudo.
Dietro questo lavoro ci sono tecniche ben precise: si interviene sul colorito, si sistemano i lineamenti, si tratta la pelle con prodotti professionali. In alcuni casi,
quando la salma ha subito traumi o è stata sottoposta a lunghi trattamenti medici, è necessario fare ricostruzioni più complesse.
Ma tutto questo, per quanto importante, non basta. Ci vuole empatia. Ci vuole presenza. Ci vuole ascolto. Bisogna sapersi sintonizzare con il dolore degli altri senza
farsene travolgere, ma anche senza indossare maschere. Io, personalmente, piango a volte. E non me ne vergogno. Lo faccio di nascosto, certo, perché il mio compito è
sostenere, non crollare. Ma sento tutto, e credo che questo sentire sia una delle parti più vere del mio lavoro.
Quando accompagno le famiglie nella camera ardente, e vedo che si avvicinano con un respiro più leggero, che accarezzano una mano, che dicono una preghiera o
semplicemente restano lì in silenzio... so di aver fatto bene il mio lavoro.
Perché la tanatoestetica non è solo tecnica, è un passaggio emotivo fondamentale. È l’opportunità, per chi resta, di dire addio in modo più dolce. Di non portare con sé
un’immagine dolorosa. Di fissare nella memoria un volto che appare sereno.
A volte, chi ha perso una persona molto cara teme quel momento. Teme di non riconoscerla, teme di soffrire ancora di più. Ma quando, entrando, si sente dire “Sembra
lei”, “È proprio come l’avrebbe voluto”, allora capisco che ho aiutato a creare uno spazio di pace in mezzo al dolore.
Mi capita spesso di parlare con le famiglie, prima di iniziare la preparazione. Chiedo qualche dettaglio: che tipo di trucco usava? Aveva un vestito preferito? Portava i
capelli in un certo modo? Sono piccoli elementi che mi aiutano a personalizzare il mio intervento. Perché ogni commiato deve essere unico, come unica è ogni vita.
Anche quando mi trovo a lavorare su persone molto anziane, cerco di valorizzare ogni segno del tempo. Le rughe, i lineamenti scavati: sono tracce di una vita vissuta. Non
vanno cancellate, vanno rese armoniose, raccontate nel modo più dolce possibile.
A volte, il mio lavoro non si vede. È dietro le quinte, lontano dagli occhi. Ma chi lo vive, chi ne sente l’effetto, sa quanto possa essere determinante. Non sono pochi i familiari
che mi hanno detto: “Non pensavo fosse così importante… ora capisco”.
Ecco, questa è la frase che mi porto nel cuore. Perché fare la tanatoestetica è anche questo: cambiare lo sguardo sulla morte. Restituirle un volto umano. Dare spazio alla
delicatezza anche nel momento più duro.
Potrei dire che lo faccio per passione. Ed è vero. Ma c’è di più. Lo faccio perché credo che ogni persona meriti rispetto, anche dopo la fine. Perché credo che ogni famiglia
abbia diritto a un saluto che non ferisca, ma accompagni. Perché credo che anche nel dolore si possa trovare bellezza. Una bellezza silenziosa, sobria, composta. Ma
autentica.
Ogni giorno, entro in contatto con la fragilità umana. E ogni giorno, cerco di onorarla con gesti piccoli ma veri. Preparare una salma non è solo il mio mestiere. È il mio modo
di esserci. Di dire “io ci sono” anche quando tutto sembra spezzarsi.
Perché anche se non posso cambiare il dolore, posso prenderlo per mano. E farlo con cura, con rispetto, con cuore.